Quando, quella mattina di vent’anni fa, Totò Riina fu arrestato in via Bernini, le manette si strinsero intorno ai polsi di uno degli uomini più feroci e potenti d’Italia. Oggi che quella belva è in gabbia, che la sua sconfitta è certificata dal carcere duro, la sua rabbia esplode. Sono confessioni, quelle registrate in carcere e raccolte integralmente in questo libro, ma non vi è traccia di un pentimento. Anzi: tutt’altro.
Sono parole diaboliche, quelle pronunciate da Totò Riina durante i colloqui in carcere con Alberto Lorusso. La “Novantacento” le ha raccolte in un volume (“Le confessioni del diavolo”, collana “I libri di S”, 260 pagine, 12,90 euro)
Nei verbali raccolti dalla redazione di “S” c’è l’orgoglio di aver vissuto le stragi del 1992, ma anche la minaccia di organizzarne un’altra per uccidere Nino Di Matteo. Non c’è solo questo, però: nel volume – che nei prossimi giorni approderà anche nelle principali librerie della Sicilia – Riina racconta la storia della mafia in prima persona, ripercorrendo i delitti eccellenti e dando le “pagelle” agli altri boss (dalla “tirchieria” affibbiata a Bernardo Provenzano allo sprezzante “i pali potrebbe metterseli in cu…” rifilato a Matteo Messina Denaro).
Ma in fondo è solo un trucco. Perché Totò Riina sa bene che finirà i suoi giorni al 41 bis. Lo sa e lo dice: “Questa fu come una condanna, come una condanna, nel codice penale italiano che non può ingoiare mai nessuno… se io verrò fra altri mille anni io verrò a fargli guerra per questa legge”. Su questo passaggio che la sbornia finisce, l’ubriacatura di orgoglio e di arroganza si scioglie come neve al sole: l’uomo ebbro dal potere che gli è derivato dal ruolo di capo della Cupola diventa d’un tratto quello che è sempre stato nonostante gli infingimenti, un ultraottantenne fiaccato dal carcere duro. Perché il diavolo che minaccia e si confessa, in fondo, non è nient’altro che una belva in gabbia. Una belva impotente, mandata al tappeto dallo Stato. Una belva sconfitta, nonostante le minacce.
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